Ricerche di Storia Politica
28/09/2016
di Massimo Fanfani, 2/10 anno XIII

La pletorica inchiesta sulla scuola secondaria promossa da Antonio Scialoja, quando nel 1872 fu ministro dell'Istruzione, e condotta da una dozzina di commissari di valore (fra cui Bonghi, Cremona, Finali, Settembrini, Tabarrini, Tenca) attraverso inchieste e documenti da ogni parte d'Italia, coinvolgendo docenti, esperti, genitori e chiunque avesse qualcosa da dire, accumulò nel giro di pochi mesi una vera valanga di carte, ma non approdò ad alcun provvedimento concreto - caduto il governo Lanza nel luglio 1873 - né servì all'approfondimento dei problemi emersi perché quei documenti, anche per il loro tono fumoso e ripetitivo, restarono praticamente inediti.
L'indubbio pregio di quell'impresa sta nell'aver consentito agli storici d'oggi (cfr. A. Montevecchi, M. Raicich, L'inchiesta Scialoja e la crisi della politica scolastica della destra, Roma, 1994), di poter osservare dall'interno il sistema dell'istruzione secondaria e classica che, dopo la legge Casati (1859), stava decollando nell'Italia postunitaria; e di scoprire che proprio ginnasi e licei, istituiti per formare il ceto dirigente del nuovo Regno, erano uno degli anelli più deboli della politica scolastica statale. Si trattava di formazione elitaria, esplicitamente destinata alle classi «che per la loro speciale condizione e fortuna sono chiamate a influire direttamente sui destini della nazione» (B. Berti 1850, cit. a p. 17), ovvero a quella «somma di cittadini intelligenti, volenterosi, attivi, che costituiscono il nerbo della società civile» (Scialoja 1872, ivi) e che devono esser di guida ai meno agiati. Tuttavia, pur coi migliori propositi, quel tipo di scuola mostrò subito la sua inadeguatezza: «gli studi classici dei nostri licei sono molto indeboliti [...] gli esami sono eccessivamente miti [...] i giovani passano alle Università imperfettamente preparati» (C. Matteucci 1865, p. 77). Difatti, mancando una qualsiasi scelta all'ingresso («non regge il cuore di rigettarne alcuni se proprio non danno prova di idiotismo», a Firenze 1873, p. 126), si finiva per livellare al ribasso («nessuno, anche quando sta per uscire dal liceo è atto a leggere un luogo latino», a Messina 1871, p. 159).
Tale insuccesso dipendeva da molte ragioni, ma innanzitutto dal supplizio di Tantalo di una scuola statale e laica nata in contrapposizione alle scuole cattoliche, ma costretta suo malgrado a riprenderne metodi e strutture mentre veniva via via soppiantandole. Così i nuovi ginnasi-licei dovettero in fondo rifarsi ai tradizionali programmi «gesuitici», puntando tutto sullo studio delle lingue classiche; riutilizzarono spesso gli stessi docenti e gli stessi edifici degli istituti sfrattati; appesantirono con un mal assimilato filologismo di pronta importazione tedesca il precedente esecrato formalismo: «Il poco profitto ... lo attribuisco molto anche al vecchio pedantesco metodo d'insegnamento di cui sono tenacissimi gli ottusi professori, allievi per lo più della vecchia scuola gesuitica» (il direttore del Ginnasio di Fano 1864, p. 148).
Tuttavia, al di là dei vari elementi di continuità col passato (e più che col modello della Ratio studiorum - i gesuiti ridottisi a ben poco in Italia - coi metodi delle scuole degli altri ordini religiosi), lo spirito complessivo dei nuovi istituti statali era profondamente diverso, come si nota proprio nell'insegnamento delle lingue classiche e in particolare del latino, cardine della scuola gesuitica e in genere delle cattoliche, dov'era usato e vissuto come reale strumento di educazione e di collegamento sovranazionale, tanto che fino alla Rivoluzione era stato la lingua della cultura e della scienza, delle università e dei seminari (che ne erano spesso, come quello patavino del Forcellini e del Facciolati, ottimi centri di studio), contribuendo peraltro alla moderna convergenza delle lingue europee. Adesso, invece, il latino viene considerato prevalentemente in una inedita dimensione ideologica e nazionalistica, per ciò che lo collega al mito di Roma, per i valori civili e morali che può suscitare nelle future élites attraverso le opere dei suoi classici, per il tono nobilitante che può ririverberare sull'idioma nazionale. E così si comincia subito ad insegnarlo non come uno strumento da possedere e da saper all'occorrenza usare, ma in funzione della comprensione di uno scelto canone di autori, spostando l'accento dalla lingua ai contenuti, come mostrano la rinuncia alla composizione latina, l'insistere sul versante glottologico e storico-letterario, e simili novità che si intravedono anche dall'inchiesta Scialoja. Insomma latino e greco nella nuova scuola laica si studiano per la loro immaginaria funzione di selezione sociale (che in realtà era a monte), come «palestra» per gli studi liberali, per la «concentrazione del pensiero», e per tante altre ottime ragioni, ma fondamentalmente proprio perché «le lingue antiche hanno il vantaggio di essere morte» (A. Piazzi 1903, p. 90). E infatti il latino d'ora in avanti muore davvero, come poi si vedrà da tutti i velleitari tentativi di rianimarlo e dal rarefarsi del suo impiego, anche nell'ambiente clericale. Mentre coloro che un tempo avevano saputo vivere con il latino e talvolta, in una dialettica non infruttuosa con la lingua materna, piegarlo a esprimere modernamente pensiero e sentimenti, erano quasi tutti usciti, fossero o meno di condizione agiata o d'idee retrograde, dalle vecchie scuole dei preti: l'elenco sarebbe lungo, ma si pensi a Vico, Volta, Prati, Pascoli.
Nella presente pubblicazione la Morelli ha il merito di aver vagliato i documenti dell'inchiesta Scialoja sotto la significativa e basilare angolatura dell'insegnamento del latino, ma non dimostra di cogliere appieno il problema sottostante e la sua complessità.;

Riferito a

Una cultura classica per la formazione delle élites

L’insegnamento del latino nei Ginnasi-Licei postunitari attraverso l’Inchiesta Scialoja sull’istruzione secondaria

Morelli Patrizia
Anno: 2009
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