Rivista di storia e letteratura religiosa
di Danilo Zardin, Silvio Antoniano, umanista ed educatore nel «rinnovamento» cattolico del Cinquecento, Anno XLIX, n. 1, 2013, pp. 251-265
Silvio Antoniano, umanista ed educatore nel «rinnovamento» cattolico del Cinquecento*
L’occasione per tornare a discutere dell’opera intellettuale svolta da Silvio Antoniano è offerta dalla pubblicazione, nella collana «Storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche» delle Edizioni Università di Macerata, a distanza di un anno dalla prima uscita, di una nuova versione, ampliata e aggiornata, del lavoro che Elisabetta Patrizi ha dedicato a una figura centrale della cultura del tardo Rinascimento italiano, abbordato nelle sue componenti religiose e nei suoi intrecci articolati con il mondo delle istituzioni ecclesiastiche. Lo scavo si presenta immediatamente funzionale alla riproposta, arricchita da un sobrio apparato di note, del testo a cui l’Antoniano deve la sua fama di autore: i Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli, redatti su istanza dell’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo e pubblicati per la prima volta a Verona, nel 1584, per i tipi di Sebastiano dalle Donne e Girolamo Stringari, da allora rimasti oggetto, fino al più recente passato, di una insistita attenzione editoriale, che contribuì a farne una sorta di 'monumento' dei modelli pedagogici del cattolicesimo post-tridentino.
L’opera in più tomi della Patrizi, che ha avuto un seguito nella preparazione di una seconda monografia parallela, incentrata sulla biblioteca e le fonti librarie dell’Antoniano, (1) prende le mosse dalla ricostruzione del profilo biografico del personaggio studiato. (2) Sintetizzando i dati della non esigua letteratura preesistente, (3) integrandone le risultanze con gli apporti di una documentazione raccolta in termini organici nel volume di appendici ausiliarie (in primo luogo viene messo a profitto il nutrito carteggio borromaico custodito presso la Biblioteca Ambrosiana), (4) la Patrizi si immerge negli ambienti che segnarono lo snodarsi del percorso di formazione e sostennero la militanza di un valente intellettuale della Chiesa a cui il futuro cardinale (elevato alla porpora nel 1599) consacrò l’operosa esistenza. Lo sfondo pacificamente 'ortodosso' e il cordiale allineamento con gli interessi dei più alti vertici del papato romano e dei suoi servitori attivi nella periferia del corpo della cattolicità non gli impedirono di raggiungere risultati di raffinata specializzazione erudita, capaci di piegare le risorse di un lungo apprendistato umanistico e retorico al servizio di un ideale esigente di rilancio della centralità della fede, vista come perno dell’ordine complessivo della società. Viene così delineata la prima formazione culturale tra Roma e Ferrara, in rapporto con il mondo cortigiano e con la società letteraria dell’epoca (fra gli altri, Antoniano entrò in contatto con Annibal Caro e Bartolomeo Ricci, nella prospettiva di un classicismo che comunque gli consentì di conciliare la coltivazione delle arti della poesia insieme con gli studi giuridici, fino al conseguimento della laurea in utroque iure, nel 1557). La tappa successiva, con il ritorno a Roma nel 1559, dopo la morte del duca Ercole II Farnese a cui l’Antoniano si era legato, consentì l’ingresso «a pieno titolo» del giovane letterato, ormai quasi ventenne, nella «Respublica literaria della città pontificia». (5)
Silvio Antoniano fu subito chiamato dal nuovo papa Pio IV a collaborare alle mansioni della Segreteria Apostolica, ponendosi nel medesimo tempo al fianco del cardinale nipote Carlo Borromeo. Il rapporto di dimestichezza tanto quanto di clientela professionale con il prelato milanese contraddistinse, da lì in avanti, tutta l’esperienza di vita del segretario umanista. All’ombra del Borromeo, egli poté intensificare i contatti con le reti istituzionali dell’Urbe e immedesimarsi nel bisogno di un nuovo slancio di iniziativa animato da un mondo religioso in vivace fermento, a cominciare dai confini della città-madre del cattolicesimo latino. Si trattò di un cammino anche di riconversione e di adattamento a nuovi ruoli per questi ministri della Chiesa cresciuti nei decenni intorno alla metà del Cinquecento e che, risolti con un taglio sempre più netto e intransigente i conti in sospeso con le proposte riformatrici venute dal Nord protestante, si potevano lanciare in un compito di ricostruzione interna dei quadri della cristianità rimasta fedele a Roma. L’Antoniano seguì il suo patrono nel primo viaggio di ritorno nella sede episcopale a cui quest’ultimo dedicò il febbrile ventennio conclusivo della sua esistenza. Ma non entrò nella cerchia riunita intorno a lui dopo il trasferimento definitivo reso possibile dal passaggio della tiara papale nelle mani di Pio V. L’Antoniano rimase a Roma. Perfezionò le sue trame di relazione e le sue competenze intellettuali. Si distinse come oratore e uomo di curia titolare di numerosi incarichi. Nello stesso tempo, senza recidere i legami con il Borromeo, si lasciò attrarre dal carisma religioso di Filippo Neri e, divenutone figlio spirituale, maturò la scelta del passaggio alla condizione ecclesiastica, venendo ordinato sacerdote nel giugno del 1568.
Il magistero filippino e il servizio alla causa del rinnovamento tridentino, a partire dal centro di governo della Roma pontificia, rimasero i due poli di riferimento per l’intero periodo successivo. Antoniano fu coinvolto con ruoli di revisore e consulente in svariate iniziative che maturavano sul versante dell’elaborazione della cultura e della sua diffusione tramite la stampa; presto lo si trova aggregato, quanto meno dal 1581, all’attività della Congregazione dell’Indice dei libri proibiti, con la quale continuò a collaborare fino alla fase estrema dell’esistenza. Nel 1599, come detto, arrivò l’elevazione alla porpora cardinalizia. Ed è senza dubbio un fatto emblematico che proprio alla comunità filippina dell’Oratorio, nel 1603, pochi mesi prima di morire, il cardinale di nascita romana donasse l’intera collezione della sua «libraria de libri stampati», con l’occasione del testamento redatto il 27 luglio di quell’anno. Una quota consistente dei volumi che vi erano inclusi si conserva ancora oggi riunita nei fondi della Biblioteca Vallicelliana. Il Librorum index scaturito dalla donazione, attribuibile agli anni Quaranta del Seicento, (6) è stato trascritto dalla medesima Patrizi e successivamente edito nel secondo contributo a cui ci stiamo riferendo, che è da accostare come supporto integrativo della più ampia monografia maceratese del 2010. (7) Qui i copiosi dati bibliografici della fonte (la lista di titoli messa a disposizione censisce più di 1.300 unità librarie) sono sfruttati per aprire una finestra ulteriore sul mondo intellettuale in cui la cultura dell’Antoniano si era radicata e a cui, in senso contrario, ha fornito un contributo creativo solo in minima parte confluito in una autonoma circolazione editoriale, resa totalmente pubblica.
Delineato un quadro del complesso di vicende e situazioni a cui la figura di Silvio Antoniano risulta connessa in quanto protagonista di spicco, Elisabetta Patrizi si concentra sul «progetto» di scrittura sfociato nella realizzazione dei Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli. (8) In questa luce vengono ripercorsi i passaggi del suo graduale allestimento, illuminati da una documentazione epistolare insolitamente ricca, che dalla autorevole committenza iniziale, dovuta all’intervento diretto di Carlo Borromeo, consente di scandagliare i momenti della progressiva stesura delle parti del trattato, la loro messa a punto con il coinvolgimento di altri esperti di dottrina e sacre lettere, chiamati, in quanto uomini di cultura, a cooperare al grande cantiere della «riforma» promossa dal potente presule milanese (in particolare, in questa circostanza, fu valorizzata la già sicura disponibilità del vescovo di Verona Agostino Valier), arrivando fino alla decisione di dirottare proprio su Verona la delicata fase del travaso nel prodotto tipografico auspicato. In secondo luogo viene introdotto il tema cruciale delle fonti che hanno costituito il retroterra per l’assemblaggio dei materiali rifusi nel lavoro di redazione di un’opera originale, sì, nell’impianto, ma tutt’altro che eccentrica e solitaria nella sua genesi. Qui diventa particolarmente chiaro che i frutti dell’ingegno letterario, anche nelle cerchie di umanisti e uomini di servizio attivi all’ombra dei poteri della Chiesa, non sono mai riducibili all’esclusiva inventiva autonoma dei loro autori dichiarati. L’autore porta su di sé l’onere della responsabilità primaria nella nascita di ogni nuovo testo. Ma la cornice in cui quest’ultima prende tutto il suo senso rimane quella di una intertestualità tale per cui i nuovi libri ricavavano la propria ossatura dal dialogo con i testi preesistenti, del cui patrimonio si proponevano come più avanzati collettori selettivi.
Per cominciare ad addentrarsi nei meandri del riuso citazionale è buona regola sfruttare innanzitutto i varchi dei rinvii meno approssimativamente circoscrivibili. L’editio princeps dei Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli, fedelmente restituita nella riedizione offerta da Elisabetta Patrizi, risulta priva di apparati di annotazione, limitandosi a includere parchi rimandi interni al flusso continuo del testo, che sono puntualmente evidenziati in modo inequivocabile quando si tratta di rinvii alle fonti primarie della tradizione religiosa cristiana, mentre tendono a rimanere solo orientativi nel gioco dell’interscambio con gli autori più moderni.
Per farsene almeno un’idea, si veda nel libro I, cap. XI, dei Tre libri la segnalazione della contiguità di argomento con la trattatistica dedicata all’institutio del comportamento disciplinato: «Non mancano autori, i quali non solo incidentemente, ma di proposito hanno trattato della educatione, et fra gli altri non è anchor gran tempo esservi stato huomo di eccellente ingegno, et dottrina, il quale in lingua fiorentina ha scritto un piacevole libretto circa la buona creanza de i fanciulli». Nel suo commento alla riedizione del testo, Patrizi identifica il «libretto», evocato da Antoniano in termini del tutto elusivi, con l’opera di Alessandro Piccolomini, De la institutione di tutta la vita dell’huomo nato nobile, et in città libera (Venezia 1542 e riedizioni seguenti), inserendola poi, con marcato risalto, nel novero delle fonti messe direttamente a profitto dall’Antoniano, senza però darne diffusa dimostrazione di conferma. (9) Un’altra opera individuata nel commento della Patrizi come «una delle fonti dell’opera antonianea» (10) è il Discorso sopra la cura, et diligenza che debbono havere i padri, et le madri verso i loro figliuoli sì nella civilità come nella pietà christiana di Andrea Ghetti da Volterra (Bologna 1572). Insieme al testo di Piccolomini, il libro compare in effetti nel Librorum index della donazione del 1603. (11) Ma, di nuovo, anche del Ghetti non si rinvengono citazioni apertamente esibite nel corpus del trattato dell’Antoniano. Evidentemente, più che i prelievi settoriali da serbatoi di alimentazione sfruttati in modi oggettivamente isolabili, qui conta l’innesto nell’alveo di una specifica tradizione, con il suo armamentario di topoi, di soluzioni condivise, di insistenze su una gerarchia strutturata di mete da perseguire; contano l’appartenenza a un genere o a una scuola di pensiero, più che i singoli esiti ritagliati dentro la foresta delle mille combinazioni di ogni riassemblaggio ipotizzabile, che dovrebbero restare puramente congetturali in assenza di prove sicure di una ripresa a senso unico, da una sola fonte vera e propria, incontrovertibilmente definita.
L’ambito tradizionale di cui i Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli sono un prolungamento tardocinquecentesco in versione devota è chiaramente riconoscibile nei suoi larghi e sfumati confini: è quello dell’institutio educativa del soggetto umano, nel suo lato «civile» così come in quello morale e religioso, una institutio dilatata nel Rinascimento di Erasmo, del Cortegiano e del Galateo, ripensata e in parte riscritta dopo le svolte imposte dalla storia generale dell’Europa lacerata dalla spaccatura e dalle lotte confessionali, ma sempre abbarbicata alle salde radici della sapienza umanistica di matrice classica, greca e latina. Ai fondamenti più autorevoli di questa tradizione normativa il testo dell’Antoniano (così come lo specchio del suo sapere rappresentato dalla parte superstite della biblioteca da lui radunata muovendosi nell’universo della cultura libraria) rinviano in continuazione, tenendo aperto uno scambio incessante con una folla di autori che, prima di essere individui identificati con un nome o la paternità precisa di un testo, sono i testimoni corali di un grande modello di paideia integrata nella fede cristiana. Da loro Antoniano attinge schierandosi dietro non meglio decifrabili riferimenti collettivi, che sono un segnale indicatore di discendenza da una scuola accolta nel suo insieme come magistero di vita: per esempio quella a cui rimanda la menzione ossequiosa degli «antichi filosofi», dei «filosofi gentili», degli «scrittori gentili» o «profani». (12) Analogo è il modo di denunciare solo per accenni generici i debiti contratti con gli autori della tradizione del pensiero religioso della cristianità più vicina ai contesti in cui l’Antoniano si era formato ed è vissuto: «come dicono i sacri theologi» è per esempio la formula che introduce un passaggio sulla speciale beatitudine garantita in cielo ai giovani dediti al culto della purezza. (13) Nelle sue annotazioni esplicative, a questo proposito Patrizi postula un ricalco dalla Summa dell’Aquinate. Ma, di nuovo, non lo si può intendere come indizio esclusivo, dato che la medesima idea potrebbe essere arrivata ad Antoniano attraverso i filtri collaterali di una molto ramificata tradizione scolastica, accumulata nel corso del tempo. Su Tommaso, una speciale misura di prudenza sarebbe sempre d’obbligo, perché anche il rinvio di un altro passo antonianeo a «quel santo et eloquentissimo dottore» (14) viene sciolto dalla curatrice come allusione alla Summa tomistica, mentre, trovandosi inserito poco dopo una citazione esplicita da san Giovanni Crisostomo, credo vada retrodatato riportandolo alle fonti antiche dei Padri. (15)
L’analisi del patrimonio fondativo della tradizione in cui i Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli si inscrivono meriterebbe di essere ulteriormente perfezionata. Bisognerebbe chiarirne in primo luogo i contorni generali, riconducendoli alla precisa gerarchia di un 'sistema' di strutturazione del discorso che rivela un metodo intellettuale, una architettura complessiva del sapere essa stessa parte di un ordine globale della realtà del mondo abbracciata dalla cultura religiosa del Cinquecento cattolico. Alla base di questo ordine della parola scritta aderente alla struttura oggettiva delle cose che attraverso di essa si manifesta sta, senza nessuna possibilità di equivoco, la parola rivelata del Libro Sacro cristiano. Tale sorta di primato è letteralmente incastonato nell’evidenza materiale con cui il testo si offre al lettore: la trama di fondo dell’opera dell’Antoniano è una trama decisamente biblica, punteggiata da continue citazioni dai due Testamenti, con il loro scheletro di parafrasi, di riprese anche microridotte, di rinvii ai luoghi delle autorità somme del discorso cristiano sulla storia e i fini della vita del mondo. Un simile ancoraggio tenace al «Grande Codice» è un’altra, monumentale conferma della parzialità della ben diversa prospettiva che invece continua a interpretare il cattolicesimo posttridentino e barocco solo all’interno dei canoni dell’antibiblicismo inquisitoriale e dell’apologetica controversista guerrafondaia, spietatamente conflittuale. (16)
Se il corpus della Bibbia è il nucleo intorno a cui si costruisce la tessitura dell’impianto letterario, il suo sviluppo passa attraverso la 'metabolizzazione', l’espansione e il continuo arricchimento in senso esegetico, narrativo, di articolazione etica e normativo-disciplinare consentiti dall’intreccio della fonte primordiale con tutti gli strati successivi di commento oltre che con le forme anche autonome di elaborazione del pensiero annodatesi su di essa nel corso del tempo, inglobando la pingue eredità di una cultura innervata da un codice genetico a due assi, tipico del classicismo o dell’umanesimo cristiano della prima età moderna. Si trattava di un classicismo bifronte, che riconciliava in sé il meglio della tradizione filosoficoletteraria degli antichi coniugandola con i dati dottrinali e con l’immagine del mondo del credo cristiano, vedendo nei primi la prefigurazione o il supporto di conferma dei contenuti del secondo. Tale modo di procedere per allestire i quadri di riferimento del discorso moderno del sapere passa, nei Tre libri dell’Antoniano, per un dialogo serrato con la cultura religiosa modellata più direttamente a ridosso della sorgente biblica, cioè con il lascito fecondo dei Padri dei primi secoli cristiani, oggetto – come nel caso dei libri biblici canonici – di frequenti citazioni puntuali, con dichiarazione palese di omaggio ai loro nomi (e dunque alla loro individualità) di testimoni venerati. I «teologi» e gli scrittori cristiani delle età successive sono ugualmente tenuti presenti, ma con la progressiva attenuazione della puntualità dei prelievi univocamente attribuiti man mano ci si allontana dalla norma più autorevole dei maestri fra tutti, per eccellenza, classici, sia pure con qualche isolata eccezione esemplificabile nel modo in cui si dichiara il debito nei confronti di Dionigi Certosino. (17) Su un fronte cronologicamente ancora più avanzato, nuovi punti di appoggio sono infine raccolti dai pronunciamenti dottrinalmente più impegnativi dei vertici di governo della Chiesa di Roma alle prese con il suo riassetto moderno: i decreti del concilio di Trento, da una parte; le formule pedagogiche fissate nei testi del catechismo redatto centralmente nella cerchia curiale del papato, dall’altra.
Avvicinandosi all’attualità del dibattito contemporaneo sull’autore dei Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli si sarebbe potuto dare ancora maggiore evidenza agli agganci dell’ideazione dell’opera con una linea strategica che risulta essere stata decisiva nella visione pastorale e negli schemi di governo religioso del popolo dei fedeli messi a punto dal prestigioso committente, cui si lega la genesi del testo. Sappiamo che da Carlo Borromeo partì il primo impulso in direzione del progetto di immettere nel circuito librario una nuova sintesi sul modello educativo della famiglia cristiana, rivolta però non al mondo dei dotti, ma all’universo eterogeneo dei lettori di ogni grado di competenza, cominciando da quelli collocati nelle posizioni meno favorevoli: «per gli huomini più communi, et popolari, a i quali fa maggior bisogno di instruttione, et il numero de i quali senza dubbio è molto maggiore, che non è dei molto intendenti». (18) Non ci si limitò, in ogni caso, alla sollecitazione iniziale. Una volta avuta dall’Antoniano l’adesione alla proposta di cimentarsi nell’impresa, il Borromeo costantemente lo incitò a portarla a conclusione, accompagnando con piglio risoluto le fasi decisive della messa a punto finale e del passaggio alla divulgazione a stampa. Il legame di simbiosi rimase incorporato nella materia del discorso pedagogico dei Tre libri. Non per niente, la lettera prefatoria dell’autore, che nell’editio princeps del 1584 figura impressa subito dopo la dedica del domenicano Alessio Figliucci al Borromeo, risulta indirizzata non, di nuovo, al cardinale milanese come replica di omaggio devoto, ma ai «padri di famiglia», primi destinatari reali dell’intero libro messo a disposizione. (19) L’apertura a una circolazione socialmente ampia, almeno come intenzione perseguita, ben congeniale a un testo come questo uscito dall’officina intellettuale della cerchia borromaica, è confermata dalla testimonianza del vescovo di Verona Valier: voce obiettivamente 'partigiana', è doveroso ammetterlo, in quanto espressione di un personaggio implicato in prima fila nell’operazione editoriale, ma pur sempre rivelatrice di una precisa aspettativa nutrita da coloro che, a vario titolo, l’avevano caldeggiata ed erano stati coinvolti nel suo progressivo avanzamento. È Valier che nel De cautione adhibenda in edendis libris fa menzione del successo dell’Antoniano segnalando la diffusa lettura alta voce del trattato sull’educazione cristiana, «in scholis doctrinae christianae, audientibus magisteri et patribus quamplurimis familias». (20) Molto opportunamente, nella sua analisi Elisabetta Patrizi mette frequentemente in rapporto il discorso svolto nei Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli con un successivo trattatello più modesto, ma di uguale indirizzo, che dobbiamo alla penna di un altro funzionario-scrittore strettamente legato alla cerchia milanese dei Borromeo: il suo devoto biografo Giovanni Pietro Giussani, autore dei Documenti a padri di famiglia per il buon governo loro, posti in appendice a varie edizioni della Vita di San Carlo stampata in vista della canonizzazione romana del 1610. Per altro si deve rimarcare che sia la versione più nobile dell’Antoniano, sia lo stringato compendio, in chiave di edificazione popolare, lasciato dal Giussani rimandano come fonte alla centralità della pastorale ad status che la riforma religiosa borromaica si incaricò di rilanciare in forme moderne. Il suo progetto di santificazione del comune fedele, a partire dagli spazi 'secolari' della vita in famiglia e dell’esercizio della professione, produsse una specifica predisposizione di strumenti educativi di supporto, che dalla predicazione e dal terreno delle pratiche rituali sfociò nel ricorso al sostegno del veicolo tipografico. La sua sanzione scritta più incisiva e più largamente assecondata anche negli altri contesti italiani del Cinque-Seicento si legò alla fortunata propaganda del Libretto de i ricordi, al popolo della città et diocese di Milano [...] per il vivere christiano, communemente ad ogni stato di persone, et particularmente a padri et madri di fameglia, mastri o capi di botteghe, et lavoranti. Uscito in prima edizione a Milano, per i tipi di Pacifico da Ponte, nel 1578, il Libretto fu poi numerose volte ristampato, a Milano e altrove, tanto in forma autonoma quanto in edizioni miscellanee a carattere devoto. Al di là degli stessi contorni rimarchevoli di una capacità di influenza fuori dal comune, ancora di più conta la disseminazione di un ben riconoscibile stile di approccio alla realtà del mondo dei laici, da essa largamente favorita. (21)
Ma torniamo ora a seguire il piano secondo cui Elisabetta Patrizi organizza il suo studio a corredo della riedizione moderna dei Tre libri dell’Antoniano. Concluso il «viaggio all’interno della trama di riferimenti e citazioni più o meno esplicite che sorreggono l’impalcatura» dell’opera, si intraprende nella terza e ultima parte del lavoro introduttivo un «percorso di approfondimento delle principali tematiche affrontate nell’opera antonianea». (22) Quello che viene offerto è, in pratica, una minuziosa rassegna della materia esposta nel corpo dei capitoli del testo in esame. Ricalcandone l’ordinata successione, si coglie l’opportunità di gettare nuova luce sul quadro delle fonti ipotizzate e, prima ancora, sui punti di convergenza riscontrabili rispetto alla letteratura di institutio in primo luogo preesistente, ma così pure coeva e posteriore alla comparsa del trattato dei Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli. Dal versante della genesi intellettuale dell’opera, ci si sposta qui ampiamente su quello della sua vasta circolazione e del contributo che ne è venuto per la diffusione di una proposta di rilancio del valore dell’istituto famigliare, in un’ottica di educazione dell’individuo e di cristianizzazione capillare della società. Il tema del successo sul mercato librario diventa assolutamente prevalente a conclusione dello studio di presentazione. (23) Vi si trovano puntualmente delineati gli snodi della «fortuna editoriale di 'lunga durata'» del testo dell’Antoniano, fissandone gli sviluppi più tangibilmente significativi fino al termine del secolo XIX. L’ultima edizione integrale rintracciata risale al 1926. (24)
Fin qui si è dato riscontro in modo pressoché esclusivo a quanto esposto da Elisabetta Patrizi nel primo tomo della monografia di cui stiamo rendendo conto. Nel secondo volume che entra a comporla, sul quale non possiamo ora soffermarci come certamente meriterebbe, si incontra una silloge cospicua della documentazione raccolta nel corso della ricerca finalizzata a inquadrare la figura dell’Antoniano e a ricostruire il valore storico della sua opera principale. Dai Ricordi per l’Anno Santo del 1575 e dagli ordini per confraternite devote e istituti assistenziali con il cui governo l’Antoniano si trovò implicato nella città di Roma (e che illuminano il meno scontato lato 'militante' o pastorale di un cardinale colto della Controriforma papale), si passa al già citato testamento del 1603 e infine all’edizione dell’ingente epistolario di Silvio Antoniano che è stato possibile raccogliere attingendo a luoghi di conservazione diversi. (25) Il carteggio, annotato con apparati di commento, risulta suddiviso in sezioni: il periodo giovanile; quello della collaborazione con Carlo Borromeo tra Roma e Milano; la gestazione dei Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli; gli anni dal presbiterato al cardinalato (1567-1599); la fase estrema (1600-1603, con un manipolo supplementare di lettere non datate). Infine, come già indicato, il terzo tomo è riservato alla riedizione del trattato dell’Antoniano. (26)
Possiamo a questo punto abbozzare qualche rapida valutazione riassuntiva finale. È stato scritto in altra sede, a suggello di un’ampia disamina a due voci dell’opera in cui sono confluite le indagini di Elisabetta Patrizi, che essa «si iscrive nella più recente storiografia sul disciplinamento». (27) È a tale proposito indubitabile che Patrizi riprenda, in diversi passaggi e sia pure con sobria moderazione, formule di linguaggio e impostazioni interpretative tipiche della storiografia del «disciplinamento sociale» di matrice politologica, attestata, dagli anni Ottanta a questa parte, sulla tesi di una stretta e inscindibile cooperazione tra autorità religiosa e autorità civile nella costruzione, e più ancora nel rafforzamento impositivo, di un ordine della società visto già prematuramente inquadrato nelle compagini degli Stati moderni in via di stabilizzazione. Ma si può largamente dubitare che figure così complesse come quelle di Carlo Borromeo, di Agostino Valier e del nostro stesso Antoniano, attive in modo intraprendente sul crinale che legava insieme mondo delle lettere, arti del governo degli uomini e cura di una spiritualità tesa alla «vera e perfetta riforma del mondo cristiano», con tutto il loro bagaglio di cultura che veniva da antiche radici e sapeva nello stesso tempo guardare verso un orizzonte proiettato sulla linea degli sviluppi più moderni della religione incarnata nel mondo, frequentemente in competizione con gli spazi di giurisdizione e con i ruoli di prestigio del potere secolare, si possano rinchiudere – semplificando drasticamente le cose – negli schemi ormai logori di un «disciplinamento» sociologicamente configurato come la marcia avanzante della piena modernità delle istituzioni politico-civili. La «disciplina» che stava a cuore ad alti ecclesiastici e a riformatori religiosi della tempra di coloro che abbiamo appena menzionato era nutrita da ben più specifiche motivazioni e attingeva a una tradizione che non ha avuto bisogno di assistere ai primi annunci dell’assolutismo dei principi o al decollo imperioso della «ragione di Stato» per dispiegare, su molti fronti eterogenei, i suoi obiettivi e i suoi privilegiati strumenti pedagogici. In via di costante aggiornamento, al fine di inserirsi nella trasformazione dei contesti di vita degli uomini, essa si offriva come il linguaggio di una pressante azione formativa tesa alla sacralizzazione degli spazi famigliari, su cui si modellava per dare forza alle sue onerose richieste. Pensare, tuttavia, che la dinamica fondamentale della elaborazione immaginativa del pensiero religioso cinquecentesco e la sua traduzione in costellazione di documenti scritti siano riducibili alla logica di dominio degli apparati politici del potere mi sembra una restrizione anacronistica, che non aiuta a comprendere il ruolo 'interno' e più propriamente distintivo dell’elemento religioso nello scenario della complessità storica.
Anche nel caso dell’Antoniano, seguendo le tracce segnaletiche disseminate nel lavoro di ricostruzione biografica e di esegesi testuale di Elisabetta Patrizi, si viene inevitabilmente condotti a riconoscere che il centro più significativo dell’esperienza di cui il cardinale romano è stato il perno è di un’altra natura. Quello che emerge in primo piano come dato storicamente saliente non è l’alleanza degli ingranaggi di controllo delle istituzioni generatrici del conformismo confessionale di Antico Regime: l’elemento centrale è semmai il profilo di un sistema di costruzione del discorso culturale come tale, che per Antoniano fa leva sul bisogno irrinunciabile di «congiungere le gemme de’ gentili» con «la sapientia de’ cristiani», quale si può dedurre come cifra ispiratrice di fondo dalla lettera stessa dei Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli. (28) In altre parole, come documenta Patrizi sia nei capitoli introduttivi della sua monografia (si vedano in particolare quelli dedicati alla formazione romana dell’Antoniano o all’episodio della borromaica Accademia delle Notti Vaticane), sia nel parallelo lavoro sull’universo librario della biblioteca da lui frequentata, (29) la chiave di volta del progetto davanti a cui siamo ricollocati è stata quella di adattare a un disegno di riforma generale della vita cristiana la strumentazione apologetica, in sé efficacemente persuasiva, di una sapienza modellata mettendo in dialogo la classicità con il deposito teologico-morale della Chiesa di Roma. «Senza contraddizione di sorta», (30) senza fratture totali o rinnegamenti a senso unico, (31) questo disegno di fusione virtuosa tra i due polmoni della grande tradizione dell’umanesimo cristiano, rilanciato su nuove linee più agili dalla fioritura di un Rinascimento tutt’altro che neopagano, si è trasmesso come sfida da ripensare all’età della prima Controriforma. Antoniano (e come lui Valier, i gesuiti delle loro generazioni, più tardi Federico Borromeo e gli eruditi dell’umanesimo cattolico e curiale del Seicento) si situa al centro della ininterrotta attualità di questa impresa di civilizzazione della cultura e di rilancio della presenza della religione nel contesto sociale: un’impresa portata avanti proseguendo modelli e inclinazioni del passato, nello stesso momento in cui le tradizioni ereditate venivano reinterpretate, corrette e addomesticate, in funzione di nuove urgenze e di nuove gerarchie di priorità.
Sintomatica di questa torsione verso indirizzi ripensati in chiave di moderna efficacia è l’autorevolezza riconosciuta all’Antoniano, nel centro di governo della cattolicità romana, in quanto censore di fiducia di molti fra gli autori che si decidevano a varcare la soglia della tipografia per dare risalto alla propria attività personale di scrittura. A lui fecero ricorso Baronio, Valier e, sul versante poetico, Torquato Tasso. (32) È dalle «lettere poetiche» di quest’ultimo che si può ricavare l’impressione che «a Roma [...] non si pubblicava opera di pregio senza il giudizio preliminare e il nullaosta dell’Antonian[o]». (33) Al «rigore» scrupoloso di colui che in gioventù aveva a fondo coltivato l’estro poetico fu sottoposto il testo provvisorio della Gerusalemme liberata. Fedele al suo ruolo di custode della verità religiosa estesa al regno della finzione letteraria, il giudizio che formulò l’Antoniano si rivelò severo «in quel ch’appartiene all’Inquisizione», unendosi al desiderio di trasformare il poema epico di Tasso in una lettura abbordabile «da religiosi e da monache», «non tanto da cavalieri». (34) Ma nella lunga replica da lui indirizzata all’Antoniano, dopo il caldo elogio dell’esordio, (35) è molto significativo che si incontri la difesa di quanto «sia necessarissimo» al registro eroico «quel mirabile ch’eccede l’uso dell’attioni e la possibilità degli uomini», con la ferma sottolineatura del dovere di continuare a fare spazio al «miracolo» e al tema amoroso nel recinto delle «moderne poesie». Era la via obbligata da tenere aperta per incentivare «quella varietà e vaghezza di cose» che sole sembravano «servire al gusto de gli uomini presenti», se si voleva disporsi sulla stessa lunghezza d’onda dell’«aura populare» senza ridursi a scrivere solo per «i pochissimi», «quando ancora tra quelli fosse Platone». (36)
Ragionare sull’Antoniano, rimettersi di fronte al monumento della sua opera scritta e al vasto quadro delle relazioni da lui alimentate, costringe a ridiscutere le categorie di distruttiva frattura polemica con cui abitualmente si tende a imprigionare l’immagine della storia del cattolicesimo colto tra fine Cinquecento e primo Seicento. La mente degli storici continua a propendere per l’esaltazione del conflitto tra rinnovamento religioso e vitalità del retaggio intellettuale umanistico. Quando pure si accoglie l’idea di una certa permanenza vischiosa del fascino esercitato dal classicismo cristiano, è però subito per affiancarvi l’idea di un riuso puramente esterno, solo strumentale, desolatamente depotenziato nel suo vigore e nella sua autonomia di risorse. Anche il classicismo 'tridentinizzato' e in chiave devota (borromaica) dell’Antoniano sarebbe, infatti, un classicismo amputato: per usare una metafora eloquente, un classicismo ormai «senza favole». (37) Eppure Antoniano alle favole continuò a credere come strumento pedagogico utile da mantenere in vita nella moderna società cristiana. Ancora nel 1563 aveva scritto la prefazione delle Fabulae centum ex antiquis auctoribus, predisposte dall’amico filologo e poeta latino Gabriele Faerno, pubblicate postume con dedica al futuro castigatore delle profanità mondane Carlo Borromeo. (38) Non è vero che Antoniano «ebbe resistenze» ad allontanarsi dalle favole: (39) semplicemente, nessuno lo costrinse veramente a farlo. Nel cuore del suo trattato pedagogico del 1584, ideato in piena sintonia con le attese dell’austero e granitico Borromeo, il «libretto in versi latini» del Faerno è ancora citato con parole di apprezzamento elogiativo, a fronte della volontà di discriminare, in senso contrario, le favole «inutili», cioè oziose e moralmente vuote o ambigue. Sulla scia – fra l’altro – di un rinvio patristico a san Basilio, in nome della carica di suggestione esercitata dalle favole sui «putti», che ne sono «molto vaghi», il rifacimento poetico dell’umanista cinquecentesco è additato come uno degli oggetti possibili delle buone letture edificanti da proporre per l’educazione dei giovani cristiani. (40)
Questo è uno dei dati che si evincono dalla lettura diretta dell’Antoniano. Ma si potrebbe aggiungere che l’apparente 'vizio' distraente del ricorso al registro narrativo della favola non lasciò immune, nella cerchia milanese stretta intorno a Carlo e poi al successore Federico Borromeo, neppure un altro degli intellettuali organici al nuovo corso devoto della Chiesa di Roma: cioè quel Giussani a cui dobbiamo, fra l’altro, lo scritto parenetico per i «padri di famiglia» fortemente imparentato, come abbiamo visto, con il modello di pensiero dei Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli e diffuso insieme alla riproposta seicentesca del Libretto de i ricordi per i padri et madri di fameglia, dato a suo tempo alle stampe da Carlo Borromeo. Il Giussani scrisse la biografia dell’arcivescovo defunto quando era ormai vicino l’approdo alla canonizzazione del 1610. Produsse diversi altri testi agiografici. Collaborò a lungo con gli officia della potente curia arcivescovile di Milano. Era un nobile ecclesiastico della Chiesa ambrosiana, apprezzato da molti – e da taluni invece criticato – per le sue qualità di autore fin troppo incline ai gusti della società religiosa del suo tempo. D’altro canto pare che sia proprio lui da identificare con lo scrittore che, sotto il velo di reticenza dello pseudonimo di «Latrobio», pubblicò sempre a Milano, nel medesimo 1610, una accattivante favola politica, il Brancaleone, cui arrise una certa fortuna nella Lombardia della più tarda età spagnola. (41) Lo scopo era pur sempre eticamente elevato: si trattava di contribuire anche con il mezzo letterario a diffondere l’educazione alle virtù dell’agire sociale, cementate dalla regola aurea della prudenza. Il retaggio umanistico qui tornava ecletticamente a fondersi con gli strumenti dell’allegoria e dell’invenzione narrativa. L’antico precetto dell’Utile miscere dulci incoraggiava a tutelare l’ordine morale della disciplina collettiva, contrapponendogli il ribaltamento comico in cui era destinata, per forza di cose, a sprofondare ogni rottura di una norma che non contemplava in sé solo severità , rigore e cieco spirito di obbedienza. (42)
ABSTRACT – Starting from Elisabetta Patrizi’s recent studies on cardinal Silvio Antoniano (1540-1603), «humanist and educator in the age of Catholic renovation», this paper remarks again the relevance of his figure. He took part in the attempt of rethinking the use of the intellectual tools (humanistic and rhetorical equipment, book knowledge, moral and religious institutio) with a new purpose: the firm rooting of Catholic faith chiefly in the ecclesiastical order and the social élites of early Counter-Reformation Italy. Between Papal Rome and Carlo Borromeo’s Milan a project of «rechristianization» is outlined, in which the most marked turning points are weaved together with the revival and original development of a tradition that is influenced, at its highest degrees, by the canons of «Christian classicism».
* A proposito di: E. PATRIZI, Silvio Antoniano. Un umanista ed educatore nell’età del Rinnovamento cattolico (1540-1603), Macerata, Eum, 2010, 3 voll., pp. 1464, ill.; EAD., «Del congiungere le gemme de’ gentili con la sapientia de’ cristiani». La biblioteca del card. Silvio Antoniano tra studia humanitatis e cultura ecclesiastica, Firenze, Olschki, 2011 (Biblioteca di bibliografia italiana, 193), pp. XVI-346, 11 tavv. f.t.
(1) E. PATRIZI, «Del congiungere le gemme de’ gentili con la sapientia de’ cristiani», cit.
(2) EAD., Silvio Antoniano, cit., I, parte I, pp. 31-201.
(3) Si veda, in particolare, P. PRODI, Antoniano Silvio, in Dizionario biografico degli italiani, III, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1961, pp. 511-514; V. FRAJESE, Il popolo fanciullo. Silvio Antoniano e il sistema disciplinare della controriforma, Milano, Angeli, 1987.
(4) E. PATRIZI, Silvio Antoniano, cit., II.
(5) Ivi, I, p. 56.
(6) Roma, Biblioteca Vallicelliana, ms. P.206, cc. 45v-71r.
(7) E. PATRIZI, «Del congiungere le gemme de’ gentili con la sapientia de’ cristiani», cit., la cui prima parte, dedicata all’analisi della fonte, riprende e approfondisce il sondaggio anticipato in EAD., The library of cardinal Silvio Antoniano between «studia humanitatis» and ecclesiastical culture, «History of education & children’s literature», V, 2010, 1, pp. 19-61.
(8) EAD., Silvio Antoniano, cit., I, pp. 203-269.
(9) Ivi, III, p. 936; per i rinvii frequenti ai punti di contatto ipotizzati con il Piccolomini cfr. ivi, I, p. 259 (e ss., in base all’indice finale dei nomi).
(10) Ivi, I, pp. 329-330, 444.
(11) E. PATRIZI, «Del congiungere le gemme de’ gentili con la sapientia de’ cristiani», cit., p. 143, n. 482, e p. 215, n. 907.
(12) Per questi e altri simili marchi di derivazione ricorrenti nella tessitura discorsiva dei Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli si veda E. PATRIZI, Silvio Antoniano, cit., I, p. 257.
(13) Ivi, III, p. 1142.
(14) Ivi, p. 1003.
(15) Ibid.
(16) Per un avvio di discussione su questo punto problematico di rilievo centrale rimando, per brevità, ai miei precedenti contributi su aspetti diversi della circolazione della cultura nel mondo cattolico italiano cinque-seicentesco: D. ZARDIN, Bibbia e letteratura religiosa in volgare nell’Italia del Cinque-Seicento, «Annali di storia moderna e contemporanea», IV, 1998, pp. 593-616; ID., Tra latino e volgare: la «Dichiarazione dei salmi» del Panigarola e i filtri di accesso alla materia biblica nell’editoria della Controriforma, «Sincronie», IV, 2000, 7, La sorgente e il roveto: la Bibbia per il XXI secolo fra storia religiosa e scrittura letteraria, a cura di S. GIOMBI, pp. 125-165; ID., Bibbia e apparati biblici nei conventi italiani del Cinque-Seicento. Primi appunti, in Libri, biblioteche e cultura degli ordini regolari nell’Italia moderna attraverso la documentazione della Congregazione dell’Indice, Atti del convegno internazionale (Macerata, 30 maggio-1 giugno 2006), a cura di R.M. BORRACCINI – R. RUSCONI, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2006, pp. 63-103; ID., La 'biblioteca ideale' del cardinal Bona. Note e appunti intorno alle fonti degli scritti ascetici, «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», XLVI, 2010, 3, pp. 489-514; ID., Sul libro e la letteratura religiosa nell’Italia del Seicento, in Barocco padano 7, Atti del XV convegno internazionale sulla musica italiana nei secoli XVII-XVIII (Milano, 14-16 luglio 2009), a cura di A. COLZANI – A. LUPPI –M. PADOAN, Como, AMIS (AntiquaeMusicae Italicae Studiosi), 2012, pp. 9-27.
(17) Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli, libro II, cap. XIV, in E. PATRIZI, Silvio Antoniano, cit., III, p. 1020.
(18) Ivi, libro I, cap. XI, in EAD., Silvio Antoniano, cit., III, p. 937, ripreso anche ivi, I, p. 253.
(19) Ivi, III, pp. 902-904.
(20) Citato ivi, I, p. 236.
(21) Su questo evidente parallelismo tra l’ispirazione di matrice borromaica e l’esito che ne poterono ricavare prima l’Antoniano, poi il Giussani, mi permetto di rinviare al sondaggio di approfondimento tentato in La «perfettione» nel proprio «stato»: strategie per la riforma generale dei costumi nel modello borromaico di governo, in Carlo Borromeo e l’opera della «grande riforma». Cultura, religione e arti del governo nella Milano del pieno Cinquecento, a cura di F. BUZZI – D. ZARDIN, Cinisello Balsamo (Milano), Silvana Editoriale, 1997, pp. 115-128; riproposto, con aggiornamenti e scheda in appendice sulla fortuna editoriale del Libretto, in D. ZARDIN, Carlo Borromeo. Cultura, santità, governo, Milano, Vita e Pensiero, 2010, cap. IV, pp. 105-142.
(22) E. PATRIZI, Silvio Antoniano, cit., I, pp. 271-472. Le due citazioni nel testo sono prelevate da p. 269.
(23) Ivi, cap. 3.4, pp. 455-472.
(24) La citazione è tratta dal titolo del capitolo: ivi, p. 455.
(25) PATRIZI, Silvio Antoniano, cit., II, pp. 573-887.
(26) Corrisponde alle pp. 891-1390 dell’opera complessiva di E. Patrizi. Dalla p. 1391 sempre del vol. III si succedono l’indice delle citazioni scritturistiche, quello degli autori citati nel commento, quindi l’elenco delle fonti manoscritte consultate, la bibliografia, l’indice delle immagini e l’indice generale dei nomi. Segnaliamo, in limine, che il testo dei Tre libri e l’ampia documentazione di corredo resi disponibili sollevano il problema dei criteri usati per la trascrizione delle fonti manoscritte e a stampa oggetto di riedizione moderna. L’opzione è stata di tipo fortemente conservativo, con la scelta di riprodurre, insieme alla forma originale dei testi, gli interventi correttivi in essi inseriti, che invece avrebbero potuto essere confinati nelle fasce di annotazione quando semplicemente l’interesse di ogni specifico caso l’avesse richiesto. Anche i criteri grafici adottati, in particolare nell’uso dei segni di interpunzione, degli accenti, nell’alternanza tra maiuscole e minuscole, avrebbero potuto senza danno essere ulteriormente normalizzati secondo gli standard dell’italiano odierno.
(27) M. OSTENC – V. LAVENIA, Il card. Silvio Antoniano tra erudizione, spiritualità e rinnovamento della pedagogia cristiana in un recente lavoro di Elisabetta Patrizi, «History of education & children’s literature», VII, 2012, 1, pp. 639-654, intervento di Vincenzo Lavenia, p. 648.
(28) Libro III, cap. XLI, in E. PATRIZI, Silvio Antoniano, cit., III, pp. 1302-1305.
(29) EAD., «Del congiungere le gemme de’ gentili con la sapientia de’ cristiani», cit.
(30) EAD., Silvio Antoniano, cit., I, p. 71.
(31) Ivi, p. 70 (ma anche in molti altri passaggi si rilevano sottolineature di analogo tenore).
(32) Su tutto questo: numerosi riferimenti ivi, pp. 111-159 e 205-210.
(33) T. TASSO, Lettere poetiche, a cura di C. MOLINARI [Milano-Parma], Fondazione Pietro Bembo Guanda, 1995, Introduzione, p. XIX.
(34) Ivi, lettera XXXIV (a Scipione Gonzaga, 11 febbraio 1576), pp. 304-314: 309-311; lettera XLIV (al medesimo, 24 aprile 1576), pp. 416-427, alle pp. 426-427. L’episodio dei contatti con Tasso, al cui interesse mi ha richiamato un prezioso suggerimento di Giacomo Jori, che ringrazio, è già commentato in E. PATRIZI, Silvio Antoniano, cit., I, pp. 205-209.
(35) Torquato Tasso a Silvio Antoniano, 30 marzo 1576, in T. TASSO, Lettere poetiche, cit., lettera XXXVIII, pp. 342-362: «Negli avvertimenti di Vostra Signoria [...] ho chiarissimamente conosciuto, o più tosto riconosciuto, il suo giudizio, la dottrina, la religione e la pietà; et insieme ho visto molta benevolenza verso me, molto zelo della mia reputazione e grandissima diligenza nelle cose mie. E poich’ella ha così pienamente adempiti tutti gli offici di cristiano, di revisore e d’amico [si noti l’endiadi], io (quel ch’a me si conviene) mi sforzarò di far sì che non abbia a parerle persona o incapace di ricevere i suoi benefici o ingrata nel riconoscerli» (p. 342).
(36) Ivi, pp. 354-359.
(37) Cito nuovamente dal commento di V. Lavenia in M. OSTENC – V. LAVENIA, Il card. Silvio Antoniano, cit., p. 650. Sono qui riflesse impostazioni interpretative tenacemente consolidate, però anche meritevoli di un rinnovato ripensamento critico. Cfr. A. PROSPERI, Censurare le favole. Il protoromanzo e l’Europa cattolica, in Il romanzo, a cura di F. MORETTI, I, La cultura del romanzo, Torino, Einaudi, 2001, pp. 71-106. Più in generale: G. FRAGNITO, Cinquecento italiano. Religione, cultura e potere dal Rinascimento alla Controriforma, Bologna, Il Mulino, 2012.
(38) Ricche informazioni al riguardo in G. FAERNO, Le favole, a cura di L. MARCOZZI, Roma, Salerno, 2005.
(39) Come scrive Lavenia, in M. OSTENC – V. LAVENIA, Il card. Silvio Antoniano, cit., p. 654.
(40) Libro III, cap. XLI già cit., Del congiungere con la lettione de i gentili alcun libro christiano, in PATRIZI, Silvio Antoniano, cit., III, pp. 1304-1305.
(41) LATROBIO (GIOVAN PIETRO GIUSSANI), Il Brancaleone, a cura di R. BRAGANTINI, Roma, Salerno, 1998; D. ZARDIN, Milano 'sacra' e 'profana': dalla «favola politica» del «Brancaleone» alla «Istoria evangelica» di Giovan Pietro Giussani, in Studi in memoria di Cesare Mozzarelli, Milano, Vita e Pensiero, 2008, I, pp. 285-323.
(42) Sempre con riferimento particolare all’ambiente della Milano di Carlo e Federico Borromeo, che poi è stato uno dei poli di gravitazione, come si è visto, dell’attività intellettuale dell’Antoniano, si vedano le indicazioni più estese fornite su questi aspetti di elasticità e mescolanza sincretica nella cultura cattolica dell’età moderna nelle mie precedenti recensioni a LATROBIO, Il Brancaleone, cit., oltre che a Rabisch. Il grottesco nell’arte del Cinquecento. L’Accademia della Val di Blenio, Lomazzo e l’ambiente milanese, Milano, Skira, 1998, apparse in «Studia Borromaica», XII, 1998, pp. 442-448 e 448-456. L’interesse di questo versante letterario della produzione editoriale di Giovan Pietro Giussani è trascurato, venendo ridotto a «satira del potere», nel sondaggio di M. GOTOR, Agiografia e censura libraria: la Vita di san Carlo Borromeo di G.P. Giussani (1610), in Il pubblico dei santi. Forme e livelli di ricezione dei messaggi agiografici, Atti del III convegno di studio dell’Associazione italiana per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia (Verona, 22-24 ottobre 1998), a cura di P. GOLINELLI, Roma, Viella, 2000, pp. 193-226, ora riproposto con il titolo La Vita di san Carlo Borromeo di Gian Pietro Giussani del 1610 tra tensioni giurisdizionali, difesa dell’autorità vescovile e ragion di Stato, in M. GOTOR, Santi stravaganti. Agiografia, ordini religiosi e censura ecclesiastica nella prima età moderna, Roma, Aracne, 2012, pp. 27.
(55) (vi viene ribadita, credo erroneamente, anche la notizia della presunta appartenenza del Giussani alla congregazione diocesana dei sacerdoti oblati di Sant’Ambrogio, voluta dal primo Borromeo – e certo non equiparabile a un «ordine religioso» –, sfruttandola poi come spunto di paragone con l’attività di ben più alto livello svolta, sempre in rapporto con la cerchia intellettuale della Milano «borromaica», da Botero: si veda ivi alle pp. 27 e 55. In realtà gli oblati milanesi erano stati solo tra i promotori dell’edizione romana della Vita di San Carlo del Giussani, firmandone collettivamente la dedica al papa Pio V, nella quale si attribuiscono l’idea dell’incarico rivolto al Giussani per spingerlo a scrivere).;
Riferito a
Silvio Antoniano
Un umanista ed educatore nell’età del Rinnovamento cattolico (1540-1603)
Patrizi Elisabetta
Anno: 2010
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