Ricerche di Storia Politica
29/09/2016
di Pierangelo Schiera, 1/2015, Biblioteca, pp. 118-120

La scelta di Cobbe in questo suo bel libro su David Hume è, fin dal titolo, netta. La bussola della sua «dottrina» politica è l’opinione. Ma non è una scelta banale, nonostante che sul punto esista già monumentale letteratura: l’opinione è infatti a sua volta bussola fra le due sponde dell’interesse filosofico-pratico di Hume, che sarebbero la politica e la costituzione. Neanche sulla prima ci sarebbe molto da aggiungere, dopo l’insuperabile ricostruzione già compiuta – proprio da un maestro italiano di storiografia, Giuseppe Giarrizzo, nel suo famoso testo del 1962 – delle coordinate storico-politico-culturali dell’impegno politico di Hume nel panorama britannico complesso e a lungo, ma spesso ancora oggi, letto riduttivamente in chiave troppo tradizionalmente whig.
La principale novità di Cobbe sta forse nel tentativo di svincolare il contributo del suo autore dalla storia consueta del «costituzionalismo», per renderlo invece protagonista di un discorso ben più preciso e insieme articolato, che è quello di «costituzione». Si parte dal disordine, frutto dei cambiamenti prodotti dall’avvento della società commerciale, per provare a giungere all’ordine. La cifra di fondo è il movimento, a cui deve corrispondere la capacità di governo. Strumento essenziale è l’opinione, principale tramite fra cittadini e autorità. È l’Inghilterra del Settecento a porre tutti quei problemi, internazionali in primo luogo – per la guerra con le colonie nord-americane e il concomitante completamento del British Empire – ma anche interni, con l’inevitabile confronto tra le forze apparentemente uscite vittoriose dalla Glorious Revolution e quelle nuove, interpreti della prima rivoluzione industriale e «bisognose» di nuove misure. Così ecco comparire con urgenza il «bisogno» di costituzione, ma non un bisogno indistinto, bensì diffuso e articolato nelle tante posizioni – sociali come culturali – che poi Hume ridurrà a Opinion. Cobbe esce dalla corrente interpretativa whig, che ha a sua volta determinato anche la lettura riduttivamente «liberale» e «costituzionalistica» otto e novecentesca di Locke. In tal modo, bilanciamento dei poteri e riconoscimento dei diritti non perdono certo il loro peso, ma possono venir intesi come meccanismi di un gioco più complesso, in cui le forze impegnate conducono una lotta di fondo, tra corruzione e ricerca di nuove leadership, tra conservazione e coraggio riformistico.
A me pare che sia Hobbes, piuttosto che il normalmente citato Locke, l’autore classico inglese a cui fare riferimento per comprendere la «novità» dell’intervento di Hume; mentre dall’altra parte (ad quem) collocherei Bentham (sul quale peraltro va citata – anche perché proveniente dallo stesso ambito storiografico-dottrinario bolognese – la pure recentissima ricerca di Paola Rudan, L’inventore della costituzione. Jeremy Bentham e il governo della società, Bologna, 2013). Il libro di Cobbe mi ha spinto a pensare che Hume faccia in qualche modo da ponte fra la troppo trascurata idea che Hobbes ha della cittadinanza e la prospettiva che Bentham dedica invece alla società: di questi due ingredienti è, a mio avviso, fatta quella «misura» che, in vari modi e per tante vie, ha costituito il modello di democrazia e liberalismo che gli inglesi hanno ininterrottamente esportato nel mondo per tutto l’Ottocento e il Novecento, fino ad oggi (British Values).
Dopo un dovizioso inquadramento dell’operazione di Hume nella fase storico-costituzionale dell’Inghilterra dopo la Glorious Revolution, Cobbe si è trovato dinanzi il problema di conciliare l’attività e la dottrina politica di Hume con l’impianto, solenne, della sua impostazione filosofica. La chiave da lui colta sta nella considerazione della società «come spazio degli scambi, dell’opinione e dei costumi». La «simpatia» dei comportamenti individuali fra loro e la proprietà «sintetica» della vita in società si devono in qualche modo assestare: l’esito di ciò sarebbe «un movimento di penetrazione del sociale nel politico che incide profondamente sulle modalità di comprensione di quest’ultimo». Grazie a Luca Cobbe abbiamo oggi uno studio di Hume che lo pone non solo nella scia di Hobbes, ma anche tra gli artefici del costituzionalismo per così dire «antropologico» del «discorso politico». La individualità colta da Hume è infatti «problematica»: «L’uomo entra in società perché ha dei problemi»; ma neppure la socialità è da meno. Essa ha bisogno del governo per potersi tradurre in costituzione. In entrambe le direzioni, a fare da collante è la specifica qualità umana di comunicazione, la quale soggiace però a una sorta di legge di indeterminatezza ante litteram, poiché non vi sono mai esiti scontati (o «naturali») ma tutto è sempre dipendente dal potere d’immaginazione, cioè dalla capacità di produrre, grazie ad una auctoritas bene spesa, quel «sistema simbolico di comunicazione» che, anche a mio modo di vedere, costituisce propriamente, in Occidente, una delle pre-condizioni della «nostra» politica.
Questo regno dell’artificialità non si limita al piano dottrinario. Anche le istituzioni sono artificiali, quindi mutevoli e scorrevoli. A partire dalla società – istituzione per eccellenza – che rende possibile e coordina, finché può, quel movimento, o traffico o commercio che è il punto di partenza dell’azione umana. Lo fa con la «invenzione» del governo, che infatti «segnala l’esigenza di una regìa amministrativa della cooperazione, in grado di fare funzionare senza intoppi quella fiducia che è alla base di qualsiasi azione socialmente coordinata».
Questa è la civil society di Hume e della migliore tradizione britannica: inscritta nell’universo più ampio che parte dalla civil conversazione e attraverso la politeness conduce alla civilization, essa attraversa con evidenza i luoghi principali della cultura occidentale e potrebbe essere oggetto di un’indagine più raffinata, che però certamente esula dall’interesse empirico di Hume per una comprensione storicamente determinata del problema dell’uomo in società, nel suo tempo.;

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