La ricerca folklorica
Gli Archetipi letterari di Meletinskij, di Rita Caprini, La ricerca folklorica, 74, 2019, pp. 263-266
Il volume, tradotto da Laura Sestri e curato da Massimo Bonafin, rende accessibile al lettore italiano l’originale russo, O literaturnych archetipach, edito a Mosca nel 1994. Nel 2013 gli stessi, traduttore e curatore, e la medesima casa editrice, avevano pubblicato la Poetica storica della novella, che avevo avuto il piacere di leggere e di recensire. Come ricordavo in quella recensione, la figura di Meletinskij rappresenta il felice coronamento di una tradizione russa di studi che non separa mai, in nome della specializzazione che ha spesso limitato lo slancio dell’Accademia occidentale, i vari aspetti degli studi umanistici, dalla lingua al folklore, dalla psicologia alla mitografia. Basti pensare alla figura di Roman Jakobson e al suo noto adagio, echeggiato da Terenzio, linguistici nihil a me alienum puto.
Meletinskij, nato nel 1918, e vissuto fino al 2005 nonostante le traversie di una vita da ebreo russo nel XX secolo (traversie che comprendevano la prigionia nazista e poi quella staliniana), era di una generazione più giovane di straordinari studiosi come Propp e Bachtin (nati entrambi nel 1895) e del già citato Jakobson, nato nel 1896, e ha per così dire traghettato quella straordinaria esperienza nel nuovo millennio. Si ricordi che per decenni, dopo il successo della Rivoluzione d’ottobre, in Occidente si seppe poco o nulla dell’esperienza russa, tanto che solo negli anni ’60 fu “scoperta” e tradotta la Morfologia della fiaba di Propp, e solo negli anni ’70 si diffusero le opere di Bachtin. Roman Jakobson aveva lasciato la Russia nell’entre deux guerres, elaborando l’insegnamento saussuriano nella scuola di Praga (le cui Tesi del ’29 avevano integrato la nascente linguistica strutturale con l’esperienza della Scuola Formalista russa di studi letterari e folklorici), e aveva poi dovuto abbandonare anche l’Europa poco dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale per rifugiarsi negli Stati Uniti dove chiuse con la morte, nel 1982, una lunga carriera accademica. Il nostro autore invece non lasciò mai la patria, se non per brevi periodi, e senza andare troppo lontano: teneva ad esempio nella vicina Estonia i celebri seminari estivi dell’Università di Tartu, raramente partecipava a convegni all’estero, come quello del 1992 a Mantova, dove lo conobbi e ascoltai la sua lezione, tenuta in francese, sul folklore arcaico del mondo.
Lo studio di Meletinskij sugli archetipi letterari si inserisce in un filone di studi che ha la sua non remota origine (meno di un secolo al momento della pubblicazione in Russia del libro di Meletinskij) nelle ricerche di Carl Gustav Jung, che naturalmente non si ponevano in ambito letterario, ma in quello della psicologia del profondo. La nozione di archetipo era in Jung collegata direttamente a quella di inconscio collettivo, insieme di elementi strutturali collettivi che lo studioso svizzero ritiene possano perfino essere trasmessi per via filogenetica. Nell’individuo l’archetipo si presenta come manifestazione involontaria di processi inconsci, che si attivano spontaneamente nella mente in momenti di indebolimento della coscienza vigile, in un processo analogo a quello in cui si verificano i sogni. Rispetto alle visioni deboli e confuse dei sogni, l’attivazione delle immagini archetipiche porta però con sé una rielaborazione, una riattualizzazione continua.
Fu proprio un sogno a rivelare a Jung l’esistenza di un inconscio collettivo, popolato di archetipi: narra egli stesso che gli pareva di trovarsi nel bel salotto di una casa che non aveva mai visto, ma che pure sapeva essere sua. Decide di visitarla tutta, al piano immediatamente inferiore trova una cucina che dall’aspetto sembra risalire al secolo XV, da lì passa a una cantina di impostazione medievale, con i resti di un muro romano, sotto alla quale si trova una caverna il cui suolo è formato di cocci e teschi umani. Jung esaminando il proprio sogno intuisce di trovarsi davanti a una sorta di diagramma di struttura della psiche umana, un presupposto di natura del tutto impersonale, un a priori collettivo, un insieme di modi d’agire, di forme istintive, cioè di archetipi.
Jung elaborò poi questa sua intuizione in un famoso volume, i Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, scritto in collaborazione con Károly Kerényi, studioso ungherese di storia delle religioni che si era rifugiato in Svizzera all’avvento del nazismo. I due autori sono entrambi convinti che lo spirito scientifico moderno impedisca ormai all’uomo della metà del XX secolo di comprendere una grande parte della realtà presente e del proprio passato, a cominciare dalla mitologia. I miti, secondo Jung, costituiscono gli esiti naturali della memoria collettiva, e vanno distinti dagli archetipi: i miti sono infatti formazioni tradizionali di età incalcolabile, mentre gli archetipi si presentano nei singoli individui come involontarie manifestazioni di processi inconsci.
Jung individuava in quel volume e in altre opere alcune figure archetipiche, ad esempio quelle della “madre”, del “bambino”, del “vecchio saggio”, dell’animus/anima (il principio inconscio della personalità, diverso per uomo e donna), dell’“ombra”, che è la parte della personalità inconscia che resta dietro alla soglia della coscienza, e che può anche presentarsi come doppio demoniaco.
Meletinskij riconosce in apertura del volume che qui recensisco il debito di gratitudine all’opera di Jung, ma gli muove una critica preliminare e decisiva: gli archetipi junghiani rappresentano soprattutto immagini, personaggi, talvolta ruoli, ma quasi mai veri e propri intrecci, che invece a parere dello studioso russo sono essenziali per l’attualizzazione dell’archetipo nella letteratura. Concordo con lui su questa presa di posizione, che a mio parere costituisce un progresso rispetto al pensiero junghiano.
Tra i seguaci di Jung che hanno portato la teoria degli archetipi in sede letteraria Meletinskij annovera Northop Frye, che a suo dire ha però il torto di tentare di espungere dalla teoria junghiana proprio la nozione fondamentale di inconscio collettivo, visto come sede individuale di una memoria comune, tramandata forse attraverso le generazioni per via biologica, come ipotizzava tentativamente Jung stesso.
La critica maggiore che Meletinskij muove a Jung è quella di ridurre le figure letterarie e gli intrecci alla vita interiore dell’anima o alla memoria di un rito (e qui cade puntualmente il riferimento, in parte naturalmente positivo, al Ramo d’oro e alla scuola “ritualista” di Cambridge). Questo approccio porta però, secondo lo studioso russo, a due esiti entrambi nocivi all’esercizio della critica: la modernizzazione del mito arcaico e l’arcaizzazione della letteratura di epoca moderna...
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Riferito a
Archetipi letterari
Meletinskij Eleazar Moiseevič, Bonafin Massimo (ed. it. a cura di)
Anno: 2016
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